Non fu un incidente.
Fu il risultato di un patto: vite in cambio di carbone.
L’Italia spediva i suoi figli sotto terra, il Belgio li consumava nelle sue miniere.
Il resto del mondo, intanto, stava a guardare.
Duemila uomini ogni settimana.
Così l’Italia rispondeva alla fame di carbone del Belgio: duecento chili al giorno per minatore — un conto che calcolava vite come merci.
Non era soltanto un flusso di lavoro: era un accordo politico e amministrativo che spediva persone lontano da tutto ciò che conoscevano, spesso senza preparazione né tutela.
Il governo italiano non stava a guardare: partecipava alla mediazione, firmava intese, timbrava permessi. Non è solo responsabilità morale — è corresponsabilità istituzionale.
Quando lo Stato manda i propri cittadini oltreconfine in nome di accordi economici, ha il dovere di proteggerli; quando non lo fa, quando sottoscrive condizioni che espongono alla morte o alla marginalità, tradisce il suo ruolo.
La miniera era un mondo a sé, e chi ci arrivava spesso non sapeva nemmeno cosa aspettarsi.
Scendevano in cunicoli umidi, dove l’aria sapeva di polvere e di metallo, e la luce era un ricordo che si consumava ad ogni metro. Lì si respirava carbone: polveri sottili che entravano nei polmoni, umidità che favoriva malattie, gallerie che non rispettavano sempre i minimi di sicurezza.
Il lavoro uccideva a orari: non solo con le esplosioni o gli incendi — che però vennero in un giorno tragico e definitivo — ma lentamente, con la polmonite, la silicosi, e la fame che stringeva la gola del lavoratore fino a togliergli il futuro.
E sopra tutto questo, le imprese del carbone tagliavano i costi; gli Stati firmavano protocolli; le vite restavano sotto terra o ai margini delle città.
E quando quei lavoratori risalivano, la società li respingeva.
Baracche ai margini dei quartieri, abitazioni umide e sovraffollate, condizioni igieniche precarie. Le famiglie, esposte a malattie e a sfruttamento, venivano etichettate: “i minatori italiani”. I bambini venivano presi in giro a scuola, le mogli subivano sguardi di sospetto. Si creava così una comunità di esclusi, separata dall’apparente prosperità che il carbone alimentava.
La marginalità non era solo sociale ma anche amministrativa: difficoltà nell’accesso ai servizi sanitari, incertezza sui diritti sindacali, pratiche complicate per chi voleva tornare o trasferirsi. Chi denunciava condizioni indegne era facilmente etichettato “agitatori” o “problematici” e poteva perdere il lavoro, o peggio.
Chi rifiutava di partire per la miniera spesso non aveva alternative; chi provava a opporsi a condizioni pericolose rischiava la reazione delle imprese e anche provvedimenti amministrativi. Era un ricatto — fame contro libertà; bisogno contro dignità.
E i veri colpevoli stavano nelle stanze dove si scrivevano i contratti: funzionari, ambasciatori, rappresentanti di imprese e governi. Lì si contavano i quintali di carbone e non le vite umane.
L’8 agosto 1956 a Marcinelle il fuoco e la fuliggine sigillarono quella corresponsabilità. Alla miniera del Bois du Cazier, 262 uomini persero la vita; 136 di loro erano italiani.
Quel rogo fu il punto estremo di una catena di responsabilità: non solo incidenti tecnici, ma anni di scelte politiche e aziendali che avevano esposto persone vulnerabili a rischi evitabili.
La memoria di Marcinelle non è solo il ricordo delle bare: è la denuncia di un sistema che permise lo scambio di vite per materie prime.
Ricordare significa anche chiamare per nome chi firmò, chi amministrò, chi tacque. Significa fare luce su come e perché lo Stato italiano accettò che i propri cittadini fossero spediti in quelle condizioni.
Per questo il racconto non può limitarsi alla scena della tragedia: deve scavare nelle responsabilità politiche e amministrative, nelle omissioni, nelle logiche economiche che resero possibile il commercio di manodopera.
Deve mettere in fila le firme e gli stipendi, gli interessi economici e la retorica politica che giustificava tutto.
Non chiediamo pietà per Marcinelle.
Chiediamo memoria, perché pietà è un fiore che appassisce,
memoria è una radice che scava e non dimentica.
Perché sotto quelle gallerie non è sepolto solo carbone:
c’è la dignità venduta di un popolo intero.
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