Abbiamo veramente bisogno di un ponte che colleghi i cervelli con il paese. In un Paese dove la memoria dura meno di un ciclo elettorale, il trasformismo è diventato arte. Non si cambia idea: si cambia costume. E ogni giravolta è accompagnata da una conferenza stampa, una diretta social, una nuova promessa. Il ponte, alla fine, non collega nulla. Serve solo a nascondere le macerie della coerenza. Per certi politici, il Ponte di Messina non è un’infrastruttura: è un trofeo da esibire. Serve meno a unire Calabria e Sicilia e più a inchiodare il proprio nome alla storia, anche se a costo di smentire sé stessi. Perché c’è chi, fino a ieri, lo definiva un’opera inutile, un pozzo senza fondo, e oggi lo presenta come l’arco di trionfo del buon governo. Un miracolo? No: una conversione fulminante sulla via dello Stretto, avvenuta dopo aver calcolato la portata elettorale più che quella ingegneristica.
È il primo pilone di un viadotto personale fatto di curve a gomito e inversioni a U. Il secondo si pianta dove un tempo campeggiava lo striscione “Roma ladrona”. All’epoca, il ponte serviva a separare il Nord dal resto del Paese. Poi, un giorno, il Sud è diventato “la nostra grande famiglia” — da zavorra a dote matrimoniale, senza passare dal via. Qui non si getta cemento: si gettano reti da pesca, rigorosamente nel mare dei voti.
La terza campata scavalca Bruxelles. Fino a qualche anno fa era un burrone da cui gettare l’euro a mare. Oggi, invece, è un’autostrada verso i fondi europei, percorsa a fari accesi. Il sovranismo, si scopre, funziona a corrente alternata: si spegne quando il bancomat dell’UE sputa banconote fresche.
Poi c’è la passerella sui migranti, costruita come una dogana di frontiera con “ingresso riservato”. Per alcuni, porti chiusi e facce da duri; per altri, tappeti rossi e sorrisi a favore di camera. È un ponte a senso unico, regolato non da semafori ma da sondaggi settimanali.
Sotto una campata tremolante c’è l’economia. Nei rendering elettorali, flat tax e taglio delle spese; in cantiere, condoni e “pace fiscale”. E se serve, ecco comparire un ponticello verso i sussidi, giusto per non lasciare a piedi qualche elettore distratto. L’ideologia, qui, si lavora come il cemento: si impasta come conviene.
Il tratto pandemico sembra costruito da architetti ubriachi: un giorno il ponte è chiuso per lavori (linea dura), il giorno dopo aperto ai pedoni negazionisti. Mascherina come casco di protezione davanti ai fotografi, via libera ai selfie senza DPI poche ore dopo. La scienza, in questo cantiere, era la sabbia: scivolava via tra le dita.
Infine, la campata giudiziaria: un passaggio sopra il tribunale, imboccato proclamando martirio e coraggio. Ma appena si vede la toga in lontananza, si devia sulla rampa d’emergenza del Parlamento. Qui il calcestruzzo è fatto di immunità e scappatoie.
E così si torna al Ponte di Messina, ora venduto come la grande opera che “salverà il Paese dall’assistenzialismo”. Peccato che a dirlo sia la stessa mano che, fino a ieri, distribuiva bonus e sussidi come volantini. Non è un ponte tra due sponde: è una giostra panoramica che fa sempre lo stesso giro, mostrando ogni volta un panorama diverso.
Perché, in fondo, quest’opera non collega Calabria e Sicilia. Collega solo la promessa di ieri alla smentita di oggi. E il cantiere non chiuderà mai: perché più che costruire, qui si lavora per restare eternamente “in costruzione”.
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