domenica 10 agosto 2025

Abbiamo veramente bisogno di un ponte


 Abbiamo veramente bisogno di un ponte che colleghi i cervelli con il paese. In un Paese dove la memoria dura meno di un ciclo elettorale, il trasformismo è diventato arte. Non si cambia idea: si cambia costume. E ogni giravolta è accompagnata da una conferenza stampa, una diretta social, una nuova promessa. Il ponte, alla fine, non collega nulla. Serve solo a nascondere le macerie della coerenza. Per certi politici, il Ponte di Messina non è un’infrastruttura: è un trofeo da esibire. Serve meno a unire Calabria e Sicilia e più a inchiodare il proprio nome alla storia, anche se a costo di smentire sé stessi. Perché c’è chi, fino a ieri, lo definiva un’opera inutile, un pozzo senza fondo, e oggi lo presenta come l’arco di trionfo del buon governo. Un miracolo? No: una conversione fulminante sulla via dello Stretto, avvenuta dopo aver calcolato la portata elettorale più che quella ingegneristica.

È il primo pilone di un viadotto personale fatto di curve a gomito e inversioni a U. Il secondo si pianta dove un tempo campeggiava lo striscione “Roma ladrona”. All’epoca, il ponte serviva a separare il Nord dal resto del Paese. Poi, un giorno, il Sud è diventato “la nostra grande famiglia” — da zavorra a dote matrimoniale, senza passare dal via. Qui non si getta cemento: si gettano reti da pesca, rigorosamente nel mare dei voti.

La terza campata scavalca Bruxelles. Fino a qualche anno fa era un burrone da cui gettare l’euro a mare. Oggi, invece, è un’autostrada verso i fondi europei, percorsa a fari accesi. Il sovranismo, si scopre, funziona a corrente alternata: si spegne quando il bancomat dell’UE sputa banconote fresche.

Poi c’è la passerella sui migranti, costruita come una dogana di frontiera con “ingresso riservato”. Per alcuni, porti chiusi e facce da duri; per altri, tappeti rossi e sorrisi a favore di camera. È un ponte a senso unico, regolato non da semafori ma da sondaggi settimanali.

Sotto una campata tremolante c’è l’economia. Nei rendering elettorali, flat tax e taglio delle spese; in cantiere, condoni e “pace fiscale”. E se serve, ecco comparire un ponticello verso i sussidi, giusto per non lasciare a piedi qualche elettore distratto. L’ideologia, qui, si lavora come il cemento: si impasta come conviene.

Il tratto pandemico sembra costruito da architetti ubriachi: un giorno il ponte è chiuso per lavori (linea dura), il giorno dopo aperto ai pedoni negazionisti. Mascherina come casco di protezione davanti ai fotografi, via libera ai selfie senza DPI poche ore dopo. La scienza, in questo cantiere, era la sabbia: scivolava via tra le dita.

Infine, la campata giudiziaria: un passaggio sopra il tribunale, imboccato proclamando martirio e coraggio. Ma appena si vede la toga in lontananza, si devia sulla rampa d’emergenza del Parlamento. Qui il calcestruzzo è fatto di immunità e scappatoie.

E così si torna al Ponte di Messina, ora venduto come la grande opera che “salverà il Paese dall’assistenzialismo”. Peccato che a dirlo sia la stessa mano che, fino a ieri, distribuiva bonus e sussidi come volantini. Non è un ponte tra due sponde: è una giostra panoramica che fa sempre lo stesso giro, mostrando ogni volta un panorama diverso.

Perché, in fondo, quest’opera non collega Calabria e Sicilia. Collega solo la promessa di ieri alla smentita di oggi. E il cantiere non chiuderà mai: perché più che costruire, qui si lavora per restare eternamente “in costruzione”. 

venerdì 8 agosto 2025

Fu un patto scellerato non una tragedia


 Non fu un incidente.

Fu il risultato di un patto: vite in cambio di carbone.
L’Italia spediva i suoi figli sotto terra, il Belgio li consumava nelle sue miniere.
Il resto del mondo, intanto, stava a guardare.

Duemila uomini ogni settimana.
Così l’Italia rispondeva alla fame di carbone del Belgio: duecento chili al giorno per minatore — un conto che calcolava vite come merci.
Non era soltanto un flusso di lavoro: era un accordo politico e amministrativo che spediva persone lontano da tutto ciò che conoscevano, spesso senza preparazione né tutela.

Il governo italiano non stava a guardare: partecipava alla mediazione, firmava intese, timbrava permessi. Non è solo responsabilità morale — è corresponsabilità istituzionale.
Quando lo Stato manda i propri cittadini oltreconfine in nome di accordi economici, ha il dovere di proteggerli; quando non lo fa, quando sottoscrive condizioni che espongono alla morte o alla marginalità, tradisce il suo ruolo.

La miniera era un mondo a sé, e chi ci arrivava spesso non sapeva nemmeno cosa aspettarsi.
Scendevano in cunicoli umidi, dove l’aria sapeva di polvere e di metallo, e la luce era un ricordo che si consumava ad ogni metro. Lì si respirava carbone: polveri sottili che entravano nei polmoni, umidità che favoriva malattie, gallerie che non rispettavano sempre i minimi di sicurezza.

Il lavoro uccideva a orari: non solo con le esplosioni o gli incendi — che però vennero in un giorno tragico e definitivo — ma lentamente, con la polmonite, la silicosi, e la fame che stringeva la gola del lavoratore fino a togliergli il futuro.
E sopra tutto questo, le imprese del carbone tagliavano i costi; gli Stati firmavano protocolli; le vite restavano sotto terra o ai margini delle città.

E quando quei lavoratori risalivano, la società li respingeva.
Baracche ai margini dei quartieri, abitazioni umide e sovraffollate, condizioni igieniche precarie. Le famiglie, esposte a malattie e a sfruttamento, venivano etichettate: “i minatori italiani”. I bambini venivano presi in giro a scuola, le mogli subivano sguardi di sospetto. Si creava così una comunità di esclusi, separata dall’apparente prosperità che il carbone alimentava.

La marginalità non era solo sociale ma anche amministrativa: difficoltà nell’accesso ai servizi sanitari, incertezza sui diritti sindacali, pratiche complicate per chi voleva tornare o trasferirsi. Chi denunciava condizioni indegne era facilmente etichettato “agitatori” o “problematici” e poteva perdere il lavoro, o peggio.

Chi rifiutava di partire per la miniera spesso non aveva alternative; chi provava a opporsi a condizioni pericolose rischiava la reazione delle imprese e anche provvedimenti amministrativi. Era un ricatto — fame contro libertà; bisogno contro dignità.
E i veri colpevoli stavano nelle stanze dove si scrivevano i contratti: funzionari, ambasciatori, rappresentanti di imprese e governi. Lì si contavano i quintali di carbone e non le vite umane.

L’8 agosto 1956 a Marcinelle il fuoco e la fuliggine sigillarono quella corresponsabilità. Alla miniera del Bois du Cazier, 262 uomini persero la vita; 136 di loro erano italiani.
Quel rogo fu il punto estremo di una catena di responsabilità: non solo incidenti tecnici, ma anni di scelte politiche e aziendali che avevano esposto persone vulnerabili a rischi evitabili.

La memoria di Marcinelle non è solo il ricordo delle bare: è la denuncia di un sistema che permise lo scambio di vite per materie prime.
Ricordare significa anche chiamare per nome chi firmò, chi amministrò, chi tacque. Significa fare luce su come e perché lo Stato italiano accettò che i propri cittadini fossero spediti in quelle condizioni.

Per questo il racconto non può limitarsi alla scena della tragedia: deve scavare nelle responsabilità politiche e amministrative, nelle omissioni, nelle logiche economiche che resero possibile il commercio di manodopera.
Deve mettere in fila le firme e gli stipendi, gli interessi economici e la retorica politica che giustificava tutto.

Non chiediamo pietà per Marcinelle.
Chiediamo memoria, perché pietà è un fiore che appassisce,
memoria è una radice che scava e non dimentica.
Perché sotto quelle gallerie non è sepolto solo carbone:
c’è la dignità venduta di un popolo intero.

Abbiamo veramente bisogno di un ponte

 Abbiamo veramente bisogno di un ponte che colleghi i cervelli con il paese. In un Paese dove la memoria dura meno di un ciclo elettorale, i...